«‘Città Invisibili’: “Parole e voci dell’antifascismo”, convegno a Milazzo» (di Francesco D’Amico)

In vista del 25 Aprile, Festa nazionale della Liberazione dal nazifascismo, l’Associazione culturale “Città Invisibili” ha promosso un incontro a Palazzo D’Amico per riflettere sull’azione politica e intellettuale di illustri figure che hanno combattuto il regime mussoliniano; sul valore della Resistenza contro l’invasore nazista e i collaborazionisti di Salò; e sul significato da attribuire all’impegno antifascista nella Repubblica fiorita dal sangue dei partigiani.

Partendo da alcune parole-chiave che racchiudono, senza esaurirla, l’essenza dell’antifascismo.

Ne hanno discusso Santo Laganà e Alessio Pracanica, rispettivamente presidente e vicepresidente di “Città Invisibili”, assieme a Daniela Novarese e Vittoria Calabrò, entrambe docenti di Storia delle Istituzioni Politiche all’Università di Messina.

L’assessore alla Cultura del Comune di Milazzo, Lucia Scolaro, ha evidenziato, in apertura, la necessità della totale condivisione della Festa di Liberazione, che “dovrebbe unire tutti gli italiani al di là di ogni schieramento o ideologia”, rivolgendo un pensiero al popolo ucraino, “i resistenti di oggi”.

Sempre in fase introduttiva, il presidente della sezione “Eliana Giorli” dell’ANPI di Milazzo, Antonio Nunzio Isgrò, prendendo spunto dalla mostra sulla Resistenza curata nelle scorse settimane dall’ANPI al Liceo “Impallomeni”, ha posto l’accento sulle vicende di Sandro Pertini e Altiero Spinelli, i quali, tra l’altro, patirono insieme il confino a Ventotene.

“L’esempio che hanno dato anche nell’Italia libera, repubblicana e antifascista - ha detto Isgrò -, ci serve a capire l’importanza della loro testimonianza, unita a quella di altri che non hanno potuto vedere l’Italia liberata dal fascismo, come Piero Gobetti e Antonio Gramsci.

Occorre partire dalle loro parole per smontare il lavoro di revisionismo operato da soggetti istituzionali che intendono costruire un calendario civile in contrasto con i fatti storici. 

L’antifascismo è in Costituzione” ha concluso, riferendosi alle recenti dichiarazioni della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa. Santo Laganà ha parlato di “antifascismo come valore in sé, integrale, che determina l’appartenenza al circuito costituzionale”; “la Costituzione - ha affermato - sancisce una netta cesura rispetto al fascismo già nel primo articolo, con l’espressione ‘Repubblica democratica’”.

La prima parola-chiave esaminata è stata “autonomia”. Daniela Novarese ha spiegato che “autonomia è una delle parole che sintetizzano più efficacemente l’antifascismo, perché, avendo il fascismo annullato il principio di rappresentanza locale, maturò negli antifascisti italiani il rifiuto di ogni impostazione centralistica”.

Accennando, poi, alla riflessione autonomistica di Luigi Sturzo e Antonio Gramsci: “Da Luigi Sturzo, nel 1921, partì un progetto moderno e completo del concetto di Regione, che egli immaginava come ente originario con funzioni proprie, da eleggere a suffragio universale maschile e femminile.

Pure Gramsci era a favore del decentramento, e infatti nella sua riflessione troviamo un’Italia suddivisa in quattro macroaree decentrate”. In seguito, la parola “giustizia” esaminata da Vittoria Calabrò.

“Una parola profondamente connessa all’antifascismo, assieme alla parola libertà.

Dopo il discorso del 3 gennaio 1925, vennero emanati provvedimenti di pubblica sicurezza che realizzarono il regime totalitario, introducendo anche il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, le cui sentenze erano inappellabili e immediatamente esecutive.

Vi finirono alla sbarra Altiero Spinelli, Sandro Pertini e Lucia Caponetto; quest’ultima - ha rammentato la docente - era nata a Francofonte, in provincia di Siracusa, e fu arrestata a Genova con l’accusa di aver ricostituito e fatto propaganda per il Partito Comunista a Messina.

Questi grandi antifascisti ci hanno insegnato che non può esistere la giustizia senza la libertà”. Per finire con la parola “popolo” affidata ad Alessio Pracanica. 

“Ogni regime vive di miti e quando si abbatte un regime la prima operazione consiste proprio nell’abbattimento dei suoi miti. Il mito può essere demolito solo dal basso, dal popolo; ma si tratta di un processo di lenta erosione, che inizia pian piano”. Con una vasta serie di aneddoti, Alessio Pracanica ha dimostrato come l’umorismo involontario del regime sia stato uno dei fattori che ne hanno determinato lo scollamento dal popolo, il progressivo declino del consenso. Citando un testo sulla storia delle ferrovie in Germania, il vicepresidente di ‘Città Invisibili’ ha evidenziato che non solo le ferrovie naziste furono meno efficienti di quelle della Repubblica Federale Tedesca, ma che, col ritorno della democrazia in Germania, appaiono di nuovo i reclami ferroviari, sinonimo di atteggiamento sovversivo durante la dittatura hitleriana.

“La propaganda del regime crea il mito: anche le illusioni fanno parte della realtà”. Pracanica ha elencato alcuni miti del regime, a cominciare da quello della “nuova Italia”, fino a giungere al mito centrale del duce con le sue imprese “mirabolanti” diffuse dai vari organi propagandistici.

Chiudendo con un’esortazione alla militanza civile e culturale: 

“Il fascismo ha detto agli italiani ciò che essi volevano sentire; non è stato un errore della politica o un incidente; rimane un irrisolto della nostra storia che richiede di processare le tante connivenze con l’apparato industriale, con la massoneria, la politica e l’esercito.

Finché non faremo i conti col fascismo, esso ritornerà magari travestito da riforma costituzionale o da televendita particolarmente allettante.

Lo dobbiamo alla nostra dignità di persone e soprattutto ai nostri figli”.